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Redazione

Autismo e società: intervista a Fabrizio Acanfora

Parlare di autismo richiede attenzione e troppo spesso non viene fatto correttamente: Fabrizio Acanfora ci dà qualche indicazione su come essere più inclusivi.

Chi è Fabrizio Acanfora? Tre parole che possano definirti. 

Io ho sempre difficoltà a definirmi, ma posso provarci: molti mi chiamano "attivista", ma io ho sempre pensato a me stesso principalmente come una persona molto curiosa e la parte principale della mia vita è stata dedicata alla musica, io sono un musicista, fondamentalmente.

Che cosa ne pensi dell’istituzione di una Giornata Mondiale della Consapevolezza sull'Autismo da parte dell'ONU? Sei convinto che appuntamenti in calendario come questo aiutino ad abbattere le barriere e ad aumentare la consapevolezza oppure a volte sono controproducenti?

Queste giornate partono con l’idea di creare consapevolezza, con le migliori intenzioni, ma spesso queste non bastano. Da un lato il 2 aprile può servire a creare consapevolezza sull’autismo, dall’altro non necessariamente se ne parla in modo corretto, soprattutto da quando un po’ di anni fa le reti sociali e la comunicazione sono diventate aperte un po’ a tutti. Non sempre quindi la narrazione nei confronti dell’autismo è corretta, ma questo capita per ciascuna “giornata mondiale di”; avviene anche in occasione del 3 dicembre [ndr. Giornata Mondiale per le Persone in Difficoltà]: spesso la narrazione che emerge è quella del dolore o quella spettacolarizzante, alla ricerca del superamento dei propri limiti. In più, molto spesso ci sono delle differenze di vedute, soprattutto tra persone autistiche autorappresentanti, come posso essere io, persone che cercano di fare attivismo, ognuna con i suoi modi e le sue possibilità, e una parte di società che, invece, è molto affezionata all’idea di autismo legata al deficit, esclusivamente all’intervento sulla persona, un po’ come se le due cose si escludessero a vicenda, quando non è così. Credo che lo scopo del 2 aprile non sia di fare della comunicazione dal punto di vista medico, per quello ci sono altri canali. Il reale obiettivo dovrebbe essere quello di costruire una società in grado di interagire con le persone, sensibilizzare su modi diversi di essere. Certo, alcuni possono essere problematici, ma non dimentichiamo che una parte di questi problemi deriva dall’interazione stessa con una società che non prevede modi di essere differenti. E infatti, non si parla di giornata della divulgazione, ma della consapevolezza. 

Libri, film e serie tv creano un immaginario abbastanza stereotipato per quanto riguarda l'autismo. Allo stesso tempo, è importante essere rappresentati e questi potrebbero essere modi per farlo. Che cosa ne pensi?

È una questione un po’ spinosa: la narrazione dovrebbe essere corale e prendere in considerazione tutti i punti di vista possibili. È anche sbagliato dire che solo le persone autistiche debbano parlare di autismo perché non è così. Ciò che spesso accade nella realtà per le persone autistiche è che tante narrazioni sono incluse tranne la loro, la nostra. La rappresentazione nelle serie tv, nei film, nei libri per molto tempo si è basata sull’idea di deficit, ma anche su qualità molto peculiari, come nel caso del film Rain Man. La narrazione di oggi è un po’ cambiata rispetto a prima, di autismo se ne parla sicuramente molto di più, ma è sempre una narrazione spettacolarizzante, come nel caso della serie tv The Good Doctor. Quest’ultima non rappresenta la realtà, descrive solo una piccolissima parte di persone: puoi avere problemi nel relazionarsi agli altri, ma se sei geniale vieni accettato dalla società; l’inclusione è subordinata a determinate caratteristiche positive presenti. Come detto nella domanda, nella maggior parte dei casi le persone autistiche sono rappresentate sullo schermo da persone neurotipiche, il problema è che se una categoria solleva la questione e dice di non sentirsi rappresentata, forse vale la pena di ascoltarla. 

La copertina del libro "Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte"

Al giorno d’oggi si parla tanto di inclusione lavorativa, ma, nella pratica, come possono essere più inclusive le aziende? Cosa dovrebbero integrare nei propri processi interni? 

Domandone! In realtà c’è un problema con l’idea stessa di inclusione: includere non dovrebbe essere un gesto verticale che viene concesso a una minoranza di persone perché si pensa: “poverine”. Dovrebbe invece trattarsi di un movimento reciproco. In una società in cui sono presenti tante persone con caratteristiche diverse, è giusto che tutte queste abbiano modo di lavorare perché il lavoro è un diritto di tutti, su questo non ci piove.  La società è però altamente standardizzata dal punto di vista della produzione, quindi le persone che hanno caratteristiche non standard hanno difficoltà a entrare nel mondo del lavoro. In più, accorgimenti e accomodamenti dell’ambiente di lavoro sono spesso costosi, e in un sistema competitivo e finalizzato esclusivamente alla produttività il dipendente con disabilità è un costo se non arriva a produrre quanto producono gli altri. L’inclusione, quindi, è molto circoscritta, riguarda le quote, per lo più

"Di pari passo. Il lavoro oltre l’idea di inclusione” è il tuo libro che affronta la tematica di quella che definisci "la convivenza delle differenze". Secondo quanto dicevamo, in un mondo ideale l’azienda dovrebbe adattare le esigenze del lavoratore e conciliarle con le proprie esigenze di produttività.

Sì, concordo, ma questo può funzionare solo dove si cambia il sistema. È vero, ci sono aziende virtuose, per lavoro ne incontro tante; anche quella in cui lavoro io lo è, tra l’altro non sono l’unica persona autistica al suo interno. Ancora oggi, però, in azienda gran parte dei ruoli decisionali e delle figure apicali sono composte da persone neurotipiche, mentre alle persone autistiche vengono assegnati ruoli di consulenza, marginali, e questa non è reale inclusione. Inoltre, le aziende virtuose si muovono a loro volta in un sistema che non è virtuoso, che si basa sulla produttività a tutti i costi e su un ideale assurdo di competitività, quindi alla fine anche se mi trovo in un ambiente nel quale si rispettano le differenze, per forza di cose dovrò entrare in contatto con il mondo esterno, con il “sistema” che è un po’ un tritacarne. L’inclusione deve necessariamente andare oltre, bisogna puntare a una società in grado di essere plurale, in cui le differenze tra le persone vengano valorizzate e non schiacciate e possano convivere nel rispetto reciproco.

La copertina di "Di pari passo. Il lavoro oltre l’idea di inclusione"

Ci fai qualche esempio di convivenza e di inclusione sul lavoro? 

C’è il mito che un'azienda “diversa”, o un team composto da persone con caratteristiche diverse, renda di più, sia più innovativo, ma è appunto un mito, perché se non si creano prima le giuste condizioni, non si può avere inclusione. Persone con diversi background, funzionamenti differenti e caratteristiche differenti hanno prima di tutto bisogno di una base culturale di convivenza. Facciamo un esempio pratico: io ho problemi con l’illuminazione troppo forte, chiedo che vengano schermate le luci, ma accanto a me ho una persona ipovedente che ha bisogno di un’illuminazione diversa. Chi vince? La vera inclusione è quella che concede un po’ a tutti il proprio spazio, magari in questo caso non abbasso le luci, ma permetto l’utilizzo di occhiali da sole. Per una persona che non sopporta i rumori forti, magari non è disponibile una postazione di lavoro fuori da un open space, ma le è garantita l’opzione di utilizzare cuffie antirumore e può alzarsi e fare pause in un luogo tranquillo, a cadenza regolare. Questo tipo di organizzazione all’interno dell’azienda si rivela poi vantaggioso per tutte le persone, si tratta di di accorgimenti a favore delle persone disabili che poi in realtà migliorano le condizioni lavorative di tutte e tutti, permettendo a ogni persona di essere se stessa, anche perché se quello lavorativo non risulta un ambiente in cui ci si sente a proprio agio, alla fine si lavora male e, di conseguenza, ci si sente male: servono misure concrete perché non sia così.

Noi di AccessiWay ci occupiamo di rendere più accessibile il web alle persone con disabilità, sia a livello di siti, che di app e webapp. In base alla tua esperienza, le persone autistiche riscontrano barriere digitali? Se sì, cosa può essere di aiuto per la fruizione agevole delle informazioni online? 

Assolutamente, ti faccio un altro esempio nel mondo aziendale: una persona si avvicina a un’azienda attraverso il sito web, spesso quest’ultimo non è accessibile a chi ha determinate caratteristiche. Molte persone autistiche sono anche dislessiche, e il testo per essere leggibile agevolmente deve avere un font adeguato, lo sfondo deve avere determinato contrasto, i paragrafi devono essere separati tra loro.

Ti faccio un altro esempio di barriera: gli annunci di lavoro su LinkedIn spesso e volentieri sono muri di testo, i contenuti non sono organizzati, non sono ben scanditi.

Un terzo esempio: pensiamo a form per la submission di contenuti. Ti racconto un aneddoto personale: dovevo iscrivermi come provider sul sito di un’azienda, tra le opzioni a disposizione non trovavo quella che più si avvicinasse a me, quindi sono stato portato a scrivere un'email all’azienda per superare l’impasse per poi sentirmi rispondere “metti quella più simile tra le alternative a disposizione”. Un altro campo da compilare era segnalato con un asterisco e quindi era obbligatorio, era essenziale l’inserimento di una PEC per procedere e portare a termine la procedura, ma dalla Spagna [ndr. in cui Acanfora vive] non è possibile farla perché serve un indirizzo di residenza in Italia: non c’era modo di andare avanti. Queste sembrano sciocchezze, ma si tratta di uno scoglio enorme per una persona autistica: per questo campo obbligatorio, ho perso due ore a compilare un modulo che avrei dovuto completare in 5 minuti.

Per far testare agli utenti finali l’accessibilità dei siti web, noi in AccessiWay organizziamo anche User Test che coinvolgono la community delle persone con disabilità, perché siano anche loro a darci feedback a riguardo, oltre ai nostri esperti di accessibilità. Che cosa ne pensi a riguardo?

Sì, per me sarebbe necessario coinvolgere le persone disabili in tutte le fasi di progettazione. Molte volte quando vieni chiamato a testare, è capitato anche a me, ti trovi davanti a qualcosa che è già stato fatto, puoi solo dire “sì, funziona”, “no, non va bene”.
La partecipazione fin dall’inizio è fondamentale perché l’accessibilità ci sia by design, la vera inclusione sarebbe avere programmatori con disabilità, per esempio. In questi settori sono pochissime le persone disabili, ma queste potrebbero creare servizi e prodotti per la minoranza che c’è anche fuori, per i clienti e gli utenti che ne hanno realmente bisogno. Dobbiamo fare in modo che anche la realtà aziendale sia il più varia possibile affinché riesca a riflettere quella del mondo esterno. 

È un po’ il concetto chiave di “nulla su di noi senza di noi”, è necessario ed è un diritto essere inclusi anche nell’organizzazione dei processi aziendali. 

Sì, più che coinvolgere le persone disabili a mo’ di contentino, di default le cose vanno progettate e fatte insieme. Il problema della vera inclusione è quello che non può limitarsi ai singoli interventi, che sono estremamente mirati, ma serve un cambiamento di mentalità di tutte le persone. Il sistema lo cambi modificando il modo di vedere della gente, piano piano, costantemente. Come lo facciamo? Facendoci sentire. Si fanno passi avanti

Che cosa ne pensi dei progetti di autonomia abitativa? Spesso l'organizzazione della vita quotidiana ricade molto sulle famiglie e tutti sognano di avere una casa propria e l'indipendenza, anche economica. Come pensi che possano essere incentivati progetti di vita autonoma?

Sono cose nuove, anche e soprattutto in Italia, dove finalmente, timidamente si parla proprio di autonomia abitativa. Mi rendo conto che al momento è difficile immaginare una società in cui qualsiasi persona possa raggiungere l’autonomia. Uno dei problemi maggiori è non avere indipendenza economica, per cui molte persone restano nelle famiglie d’origine per mancanza di possibilità economiche. Inoltre ci sono persone, tra le quali rientro anche io, che hanno bisogno di supporto per svolgere attività quotidiane come fare la spesa, gestire le proprie finanze, affrontare la burocrazia, utilizzare i mezzi pubblici, pianificare gli orari, scegliere le strade da percorrere, occuparsi delle pulizie domestiche e prepararsi da mangiare. L’intervento serve, può essere anche estremamente utile un’opera di mediazione da parte di persone, di tutor che riescano a mediare tra la persona autistica e la società neurotipica. 

Laddove non arriva la società, possono ovviare le associazioni. Che importanza ha per te l’attivismo per te? Fai parte di qualcuna o ce n'è una con la quale trovi molti punti di contatto?

Alice Sodi, attivista, persona autistica, ha fondato Neuropeculiar e fino all’anno scorso ne era la Presidente, mentre io ricoprivo il ruolo di Vicepresidente. Da un anno a questa sono stati invertiti i ruoli, per cui presiedo io il consiglio direttivo. Neuropeculiar è la prima (e per ora unica) associazione in Italia che è stata fondata ed è gestita da persone autistiche. È aperta a tutti: tra i nostri associati ci sono genitori, familiari, persone neurodivergenti, specialisti come psicologi e psichiatri. Tra i vari progetti realizzati dall’associazione, uno particolarmente interessante è stato quello che ci ha portati a spiegare la neurodiversità nelle scuole primarie. In questo progetto è stato importante il sostegno e il supporto di chi sapesse lavorare con le bambine e i bambini, abbiamo avuto il sostegno di psicologi e degli insegnanti. Sono occasioni in cui famiglie, specialisti, persone autistiche si incontrano per fare divulgazione, ed è fondamentale sviluppare una visione il più ampia possibile, altrimenti si corre il rischio di essere autoreferenziali.

Qual è il messaggio finale che daresti a chi sta leggendo questa intervista?

Il messaggio, che è stato leit motiv di tutta la nostra intervista, potrebbe essere: l’informazione, la comunicazione, devono essere il più possibile frutto di una narrazione corale, collettiva, ma non sempre questo accade e a volte l’informazione rischia di essere distorta, di rappresentare solo una parte della realtà. Dobbiamo fare molta attenzione perché ultimamente c’è una grande polarizzazione dei discorsi, anche sull’autismo, e chi vive questo mondo lo sa. Vorrei tornare un attimo sull’idea della narrazione della società: non è una questione astratta perché il modo in cui noi narriamo e rappresentiamo le persone è il modo in cui entreremo in relazione con loro, il in cui penseremo a loro. Dobbiamo fare attenzione a mantenere il discorso plurale, il più possibile, e pensare che in questa pluralità non è possibile che manchi proprio la voce delle persone direttamente interessate.

Torniamo un attimo al 2 aprile: succede sempre meno da qualche tempo a questa parte, ma molti degli eventi che verranno organizzati in occasione di questa giornata non vedranno la partecipazione delle persone direttamente interessate: le persone autistiche e le loro famiglie, ed è importante sottolineare il contributo fondamentale delle famiglie. Cerchiamo di collaborare, di ascoltarci, di muoverci su un terreno di reciprocità perché il rischio è di rimanere ancorati a un'idea di inclusione che vede le cosiddette “minoranze” accontentarsi di un ruolo passivo nella società: è fondamentale creare ponti, cercare di dialogare, anche di confrontarsi senza sconti, ma sempre con un obiettivo comune: il benessere delle persone autistiche e delle loro famiglie.

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