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Redazione

Come si diventa campioni del mondo: intervista a Giuliano Bufacchi, coach della nazionale di basket con sindrome di Down

In questa intervista Giuliano Bufacchi, coach della nazionale di basket con sindrome di Down, ci racconta la sua esperienza e le vittorie ottenute.

Giuliano, avete raggiunto un risultato straordinario: come come ti senti sia rispetto a questo incredibile traguardo sia rispetto ai traguardi quotidiani raggiunti dai membri della squadra?

Devo confessare che non me l’aspettavo. Lavoro in questo mondo dal 2011, ma è solo dal 2017 che la squadra comprende esclusivamente ragazzi con la sindrome di Down, in quanto prima includeva anche ragazzi con difficoltà intellettive e relazionali, dovute all’autismo o a DSA. Chiaramente c’era una differenza a livello fisico, in quanto la sindrome di Down, rispetto a un DSA, va a inficiare anche quell’aspetto. Si sono quindi divise le squadre a livello internazionale, con le persone con la sindrome di Down che rientrano nella categoria AA.

Io mi sono sempre battuto per non modificare le regole per le persone con disabilità, anche se comporta maggiori difficoltà. D’altronde, questi ragazzi giocano in squadre di club in tutta Italia, quindi io ne raccolgo i frutti.

L’obiettivo è la “normalizzazione” attraverso lo sport. Dei riscontri vi sono anche a livello generale, perché le famiglie sottolineano i miglioramenti anche nella vita quotidiana.

Pensi che ci sia un motivo particolare per questi miglioramenti?

Noi lavoriamo come una vera e propria nazionale: con gli atleti parte l’allenatore con i suoi due assistenti e il medico. Non ci sono il papà e la mamma, non c’è l’assistente sociale, non c’è l’addetto della cooperativa. I ragazzi si trovano quindi a vivere delle esperienze che giornalmente non vivono, rimanendo fuori dalla comfort zone.

Questo non vuol dire che manchino i momenti di difficoltà, perché me ne fanno passare di tutti i colori. Io però non li considero delle persone con disabilità, ma dei giocatori di pallacanestro, che portano la maglia della nazionale. Anche perché, in fondo, io sono un allenatore e un informatico, senza una preparazione medica, psichiatrica o assistenziale specifica. Nello staff c’è il mio assistente, Mauro Dessì, che oltre a essere un allenatore è anche un assistente sociale e ha lavorato tanti anni con i ragazzi con disabilità e mi ha insegnato e continua a insegnarmi tanto. C’è poi anche Francesca D’Erasmo, che ha competenze specifiche ed è essenziale per completare le competenze.

Come si lavora nel team?

Come dicevo, avere persone con competenze e preparazioni diverse, oltre alla grande esperienza, dovuta a 11 anni di lavoro nel settore, aiuta ad avere un ottimo clima all’interno del gruppo. Nel team ci consideriamo alla pari, non ci sono ruoli di superiorità. Gli atleti non mi considerano il capo, ma un loro amico, e questo indubbiamente aiuta. Ci si capisce con uno sguardo insomma.

Dati i vostri risultati pazzeschi, qual è il segreto di un tale successo?

Certamente la prima ragione è la forza del gruppo, che non vuol dire che non si litighi, ma c’è molta coesione. Coi ragazzi lavoriamo tutto l’anno, non solo in occasione delle competizioni internazionali. Con il duro lavoro, da pochi siamo diventati tanti e abbiamo guadagnato tanta visibilità, con tante adesioni. Stiamo facendo passare il messaggio che anche le persone con disabilità possono fare sport a grande livello, non solo attraverso allenamenti o attività occasionali. Se questo nostro “piccolo” riesce a far crescere il movimento sportivo delle persone con disabilità, si tratta di un’ottima notizia.

Com’è andata la sera prima della finale?

Per assurdo, quello con più ansia sono io. Da prima degli europei studiavo l’Ungheria, avendo anche contattato il loro coach, che mi ha confessato che anche loro ci spiavano. Sapevamo che hanno grande fisicità e abbiamo lavorato su quel punto, con dei giochi specifici per contrastarli. Comunque, nonostante l’ansia, cerco di nasconderla ai ragazzi, ma sono indubbiamente quello che se la vive peggio; ho passato la notte in bianco insomma.

Loro invece erano tranquilli, hanno fatto colazione e già parlavano degli eventuali festeggiamenti, senza nessuna scaramanzia. Io sono il contrario, continuo a usare le stesse scarpe anche se ormai sono rovinate.

Un foto di gruppo della nazionale di basket con sindrome di Down

E la notte dopo la finale?

La notte dopo abbiamo festeggiato con un bel pasto, con la coppa a centro tavola e una camminata sul lungomare. Non abbiamo potuto fare nottata perché avevamo il volo di ritorno la mattina, purtroppo.

Che futuro vedi per la nazionale di pallacanestro delle persone con sindrome di Down?

Vedo un futuro roseo, perché abbiamo una serie di eventi già pianificati, una scaletta ben precisa, per cui non stiamo perdendo tempo. Continueremo a crescere anche a livello tecnico, perché abbiamo molti margini di crescita. Insomma, sono molto ottimista.

Nella tua esperienza, qual è la tua opinione sull’accessibilità digitale delle persone con sindrome di Down?

Lavorando da anni nell’ambiente, mi sono accorto che i ragazzi con la sindrome di Down con lo smartphone sono dei fenomeni. Molte app sono user friendly, quindi aiuta. Per quanto riguarda l’accessibilità non ludica, mi accorgo dei problemi anche per via del mio lavoro di informatico. Senza dubbio realtà come AccessiWay sono essenziali per garantire una vita piena e soddisfacente alle persone con disabilità, garantendo l’inclusione.

Cosa vorresti dire sulle persone con sindrome di Down a una persona che non ne ha mai incontrata una?

Che sono persone. C’è poco da dire. Io quando interagisco con una persona devo capire con chi sto interagendo e relazionarmi di conseguenza. Ma è una cosa che avviene normalmente, con chiunque. Altrimenti si rischia di perdere dei concetti. Sarebbe assurdo, d’altronde, che parlassi di concetti molto tecnici con persone che non fanno il mio lavoro. Con loro parliamo di basket, perché è il motivo per cui siamo lì, ma se ci dovessimo prendere un caffè parleremmo del più e del meno.

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